All inclusive.
Tutto incluso.
È un termine che non mi è mai piaciuto, sa di pacchetti truffa dove la fregatura è dietro l’angolo.
Ma, si sa, siamo nell’epoca della deficienza demagogica, delle false crisi, dell’eco senza cervello, del dover essere buoni da fare schifo a tutti i costi (quando poi chi appoggia questa ideologia fa schifo e basta).
L’epoca dell’all inclusive, appunto, e il cinema non poteva essere da meno.
Così, dopo le ultime pubblicazioni libresche e in attesa delle altre uscite, ho deciso di scrivere un altro post “sociale” per così dire.
Il tema è il cinema e la nuova politica all inclusive.
Perché dal prossimo anno, rullo di tamburi ignoranti, il regolamento degli Academy impone una quota di minorati... no, di minoranze... insomma di “diversi” affinché un film possa essere ammesso alla corsa per gli Oscar.
Personalmente me ne strafotto degli Oscar, come di un’altra miriade di cose incluso Sanremo, il calcio, i reality, il Giro dell’Ucraina (era d’Italia, per caso?), le recensioni dei libri (ops, è scappato...), la questione è un’altra.
Perché qualcuno deve imporre alcuni “tipi” di persone per dichiarare un prodotto appetibile?
Facciamo un recente esempio: fra poco uscirà al cinema il live action de La Sirenetta e Ariel è africana.
Il razzismo è dietro l’angolo, anzi mi aspetto già qualche commento isterico con tanto di forconi, ma non c’entra niente.
Se Ariel appartiene alla tradizione danese, per quanto non venga mai descritta da Andersen, che senso ha farla di colore? Fra l’altro, se ricordo bene, dopo Lawrence Olivier non è stato più permesso il blackface, però va bene colorare di nero un personaggio da candeggina.
Allora se Mu Lan fosse stata svedese andava bene? No, certo che no, avremmo avuto orde di cinesi con gli zebedei girati.
E se al posto de La Bella e la Bestia ci fossero stati Il Bello e il Bestio (ma sì, giriamo tutto al maschile) la storia sarebbe stata più bella?
Ma serve sul serio un 30% di individui ritenuti diversi (da chi?) per rendere un’opera d’arte qualcosa di importante?
Trovo allucinante che si debbano imporre quote rosa, persone lgbtxyzalfaomega, disabili (e dire che un tempo ci chiamavano handicappati e non è mai morto nessuno), gente di qualsiasi etnia non caucasica per una politica di assurda accettazione.
Ma accettazione di chi, di cosa?
Non c’è da accettare niente.
Siamo tutti diversi, tutti uguali, tutti unici.
Se iniziamo a parlare di accettarci, non abbiamo capito niente.
E per finire, mi trovo d’accordo con Richard Dreyfuss che dice senza tanti problemi:
“Mi fanno letteralmente vomitare. Questa è una forma d'arte, se sono un artista, nessuno dovrebbe dirmi che la mia arte deva cedere il passo all'idea più recente e attuale di cosa sia la moralità.
Tutto incluso.
È un termine che non mi è mai piaciuto, sa di pacchetti truffa dove la fregatura è dietro l’angolo.
Ma, si sa, siamo nell’epoca della deficienza demagogica, delle false crisi, dell’eco senza cervello, del dover essere buoni da fare schifo a tutti i costi (quando poi chi appoggia questa ideologia fa schifo e basta).
L’epoca dell’all inclusive, appunto, e il cinema non poteva essere da meno.
Così, dopo le ultime pubblicazioni libresche e in attesa delle altre uscite, ho deciso di scrivere un altro post “sociale” per così dire.
Il tema è il cinema e la nuova politica all inclusive.
Perché dal prossimo anno, rullo di tamburi ignoranti, il regolamento degli Academy impone una quota di minorati... no, di minoranze... insomma di “diversi” affinché un film possa essere ammesso alla corsa per gli Oscar.
Personalmente me ne strafotto degli Oscar, come di un’altra miriade di cose incluso Sanremo, il calcio, i reality, il Giro dell’Ucraina (era d’Italia, per caso?), le recensioni dei libri (ops, è scappato...), la questione è un’altra.
Perché qualcuno deve imporre alcuni “tipi” di persone per dichiarare un prodotto appetibile?
Facciamo un recente esempio: fra poco uscirà al cinema il live action de La Sirenetta e Ariel è africana.
Il razzismo è dietro l’angolo, anzi mi aspetto già qualche commento isterico con tanto di forconi, ma non c’entra niente.
Se Ariel appartiene alla tradizione danese, per quanto non venga mai descritta da Andersen, che senso ha farla di colore? Fra l’altro, se ricordo bene, dopo Lawrence Olivier non è stato più permesso il blackface, però va bene colorare di nero un personaggio da candeggina.
Allora se Mu Lan fosse stata svedese andava bene? No, certo che no, avremmo avuto orde di cinesi con gli zebedei girati.
E se al posto de La Bella e la Bestia ci fossero stati Il Bello e il Bestio (ma sì, giriamo tutto al maschile) la storia sarebbe stata più bella?
Ma serve sul serio un 30% di individui ritenuti diversi (da chi?) per rendere un’opera d’arte qualcosa di importante?
Trovo allucinante che si debbano imporre quote rosa, persone lgbtxyzalfaomega, disabili (e dire che un tempo ci chiamavano handicappati e non è mai morto nessuno), gente di qualsiasi etnia non caucasica per una politica di assurda accettazione.
Ma accettazione di chi, di cosa?
Non c’è da accettare niente.
Siamo tutti diversi, tutti uguali, tutti unici.
Se iniziamo a parlare di accettarci, non abbiamo capito niente.
E per finire, mi trovo d’accordo con Richard Dreyfuss che dice senza tanti problemi:
“Mi fanno letteralmente vomitare. Questa è una forma d'arte, se sono un artista, nessuno dovrebbe dirmi che la mia arte deva cedere il passo all'idea più recente e attuale di cosa sia la moralità.
Cosa stiamo rischiando? Stiamo davvero rischiando di ferire i sentimenti delle persone?
Non puoi legiferare su questo.”
(fonte: everyeye)
(fonte: everyeye)