Buongiorno a tutti, finalmente siamo in pieno autunno!
Prima di parlare della solitudine, l'argomento di questo post, voglio invitarvi a leggere la
recensione del libro
Le voci delle donne, che ho scritto insieme a Ofelia De Ville, fatta da Mary e Vale del blog La valigia di carta.
E ora discutiamo un po'.
C’era una volta la solitudine, poi sono arrivati internet e i social
media che hanno esasperato il concetto aristotelico secondo cui l’uomo è un
animale sociale intrappolando per persone in rapporti che durano forzatamente
ventiquattrore su ventiquattro, sette giorni su sette.
Se non sono i social, c’è la televisione, il telefono, il sito, il
blog, gli amici su whatsapp, le chat...
Insomma, che ci piaccia o no fuori ma soprattutto dentro le mura di
casa siamo bombardati da continui contatti.
Sembra che se non si forma un gruppo, una massa o peggio ancora un
branco, si diventi in automatico persone anomale.
E la solitudine, dov’è andata a finire?
Dov’è quel magico spazio della mente e della fisicità in cui siamo
finalmente soli, distaccati da tutto ciò che ci circonda, dove non dobbiamo
rendere conto di niente a nessuno e fare ciò che più ci aggrada, che ci fa
stare bene?
Dov’è quello spazio necessario per la creazione di un’opera, per il
concepimento di un pensiero o semplicemente per una piccola coccola da dedicare
a se stessi?
Personalmente io amo molto la solitudine, un po’ perché è sempre stata
la mia dimensione naturale e soprattutto perché in essa riesco a lavorare, ad
avere le mie idee migliori.
Non mi spaventa lo stare sola, il distaccarmi dalle altre persone,
ritagliarmi un angolo fatto di silenzio e di pensieri propositivi.
Per me la solitudine è vitale, è un filtro necessario attraverso cui
osservare l’universo.
È la dimensione in cui mi realizzo meglio.
Eppure so di essere una mosca bianca e quindi mi domando se tutti
questi rapporti forzosi e forzati non siano la dimostrazione di quanto la
società odierna sia sterile e di come la maggior parte delle persone viva in
un’incostante dimensione di immaturità, incapace di bastare.
Essere faccia a faccia col sé
significa, per forza di cose, affrontarsi. È il cosiddetto “esame di
coscienza”, che non può che giovare. Fare i conti con i propri errori porta a
non commetterli in futuro. Paradossalmente, l’isolamento è una cura
all’egoismo, che si manifesta nella moltitudine: ostentare per attrarre le
altrui attenzioni; schiacciare gli altri per distinguersi, per cercare conferme
alla propria autostima.
La solitudine è un bagno di
umiltà e permette di formare una coscienza autonoma, che non ha bisogno del prossimo
per reggersi. Né di aiutarlo o di essere aiutato, né di umiliarlo o di farsi
umiliare da lui.
«La solitudine è la miglior cura per la vanità», affermava Thomas Wolfe, e il
silenzio insegna valori trascurati al giorno d’oggi: la discrezione, il contegno,
il decoro. Atteggiamenti che la maggioranza continua a stimare, sottovoce, in
netta controtendenza con la volgarità chiassosa che contraddistingue
quest’epoca.
La solitudine feconda permette di
focalizzare gli sforzi su un obiettivo preciso. Chi ambisce a qualcosa di
grande lo sa: è un percorso che s’intraprende da soli.
Anzi, gli altri fungono da pause,
ostacoli allo scopo che ci si è prefissati. Che sia studio, lavoro o arte, si
può contare solo su se stessi, sul sudore che si versa indipendentemente dal
prossimo.
La solitudine è la dimensione del
sognatore.
«La grandezza è solitaria. Si
direbbe anzi che la solitudine è condizione della grandezza. Tutte le
intelligenze superiori, tutte le nature superiori sono isolate, l’aquila vive
sola, il leone solo», notava Iginio Ugo Tarchetti.
Similitudine, questa, espressa
anche dal coevo Arthur Schopenhauer, filosofo solitario per definizione.
I
wandered lonely as a cloud
that
floats on high o'er vales and hills,
when
all at once I saw a crowd,
a
host, of golden daffodils;
beside
the lake, beneath the trees,
fluttering
and dancing in the breeze.
Continuous
as the stars that shine
And
twinkle on the milky way,
They
stretched in never-ending line
Along
the margin of a bay:
Ten
thousand saw I at a glance,
Tossing
their heads in sprightly dance.
The
waves beside them danced; but they
Out-did
the sparkling waves in glee:
A
poet could not but be gay,
In
such a jocund company.
I
gazed - and gazed - but little thought
What
wealth the show to me had brought:
For
oft, when on my couch I lie
In
vacant or in pensive mood,
They
flash upon that inward eye
Which
is the bliss of solitude;
And
then my heart with pleasure fills,
And
dances with the daffodils.
(The
daffodils - William Wordsworth)